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  • Fiori d'Acciaio

Hikikomori: il mondo in una stanza



Dentro la stanza. È questo il concetto chiave che ci accompagnerà per tutto questo elaborato. Infatti, con il termine hikikomori ci si riferisce ad una persona che ha smesso di andare a scuola o a lavoro e che passa la maggior parte del suo tempo, se non tutto, a casa o dentro la propria stanza (Kato et al., 2019).


Questo termine si riferisce sia alla condizione che alla persona socialmente ritirata. Coniata da Saito Tamaki, la parola hikikomori è composta da hiku, che letteralmente significa “tirare indietro”, e komoru, "ritirarsi" o "chiudersi". Viene tradotta in inglese con “social withdrawal”, mentre in italiano come “ritirato”.


Un aspetto interessante è che il verbo komori, con la stessa pronuncia di komoru ma diversa scrittura, significa “fare da babysitter”. Questa sfumatura di significato, oltre a far ipotizzare un continuum tra l’infanzia e “un’adolescenza senza fine” (Olry, 2023), fa riflettere anche sul legame che c’è tra il concetto di amae e di hikikomori, aspetto che verrà trattato in seguito in questo elaborato.


Un pò di storia


Di hikikomori si comincia a parlare, dunque, dagli anni ’90, anche se forme di ritiro sociale sono state riscontrate già a partire dagli anni ’70. Infatti, tra gli anni ’70 e ’80 si parla di “truancy” (assenteismo ingiustificato) o di rifiuto scolastico, chiamato futoko in giapponese (Kato et al., 2019); Kasahara descrive, invece, casi di “withdrawal neurosis” (nevrosi da ritiro), in cui le persone lasciavano la scuola o il lavoro per lunghi periodi; mentre Lock parla di “sindrome del rifiuto scolastico” (Teo & Gaw, 2010).

Tutte e tre presentano delle somiglianze con gli hikikomori di oggi.


All’inizio, gli hikikomori sono stati visti come un fenomeno che riguardava unicamente la società giapponese. È su questo aspetto che si è aperto il dibattito sulla visione dell’hikikomori come sindrome culturale oppure come disturbo a sé. Viene, inoltre, ipotizzato che possa essere una forma particolare di coping, di reazione allo stress, una strategia di evitamento in risposta a situazioni sociali e di giudizio sociale percepiti come stressanti. Diventare hikikomori sarebbe un modo per evitare le pressioni che derivano dalla famiglia, dalla scuola e dalla società, una reazione contro i ritmi frenetici e gli standard richiesti dalla società di oggi, che non offre molte opportunità (Ferrante & D'Elia, 2022).



Definizione diagnostica


Se l’hikikomori è da considerare come sindrome culturale, allora sarebbe dovuto essere inserito nella sezione del DSM-5 dedicata alle sindromi legate ad una cultura, cosa che non è accaduta. Questo può essere dovuto al fatto che sono stati trovati molti casi in molti paesi al di fuori del Giappone, tra cui l’Italia, e continuare a riferirsi all’hikikomori come sindrome culturale giapponese potrebbe portare ad un minor riconoscimento di tale fenomeno al di fuori del Giappone. Inoltre, possono essere il crescente individualismo e l’avvento di internet a spiegare lo sviluppo di hikikomori (Bommersbach& Millard, 2019). Si potrebbe parlare, allora, più che di sindrome culturale, di sindrome legata alla società moderna (Kato et al., 2019).


Per quanto riguarda la visione dell’hikikomori come disturbo a sé, il discorso si fa più complicato. Tre gruppi sintetizzano le attuali posizioni degli psichiatri riguardo il fenomeno hikikomori (Tajan, 2015):

  1. chi sostiene che le persone hikikomori hanno sempre un disturbo psicologico noto ai sistemi di classificazione diagnostica e che, per questo, non sia essenziale una nuova categoria specifica;

  2.  chi distingue tra hikikomori primario (senza un evidente disturbo psichiatrico) e secondario (in cui il ritiro è attribuibile alla presenza di disturbi psichiatrici);

  3. chi, d’accordo con la differenziazione tra hikikomori primario e secondario, ritiene che per l’hikikomori primario sia necessario introdurre una nuova patologia nella sezione del DSM dedicata alle sindromi legate a una cultura.

L’hikikomori, infatti, sono spesso, ma non sempre, classificabili come diversi disturbi psichiatrici già esistenti nel DSM-5 (Teo, 2010).

La caratteristica principale degli hikikomori è il ritiro sociale e questo apre a molte diagnosi differenziali tra cui: disturbi d’ansia come l’ansia sociale, la fobia scolare e l’agorafobia; disturbo ossessivo-compulsivo; depressione o altri disturbi dell’umore come la mania; disturbi di personalità come quello schizoide o evitante (Teo & Gaw, 2010). Non è quindi molto chiaro se sono i disturbi psichiatrici a dare origine all’hikikomori, che diventa così un sintomo, o se è la condizione di hikikomori che porta ai disturbi psichiatrici

Non esistendo, dunque, nel DSM-5 una diagnosi di hikikomori, sono stati individuati i seguenti criteri (Tajan, 2015; Ministry of Health, Labour and Welfare, 2003):

  1. Uno stile di vita incentrato a casa;

  2. Presenza di rifiuto scolastico e/o lavorativo;

  3. Persistenza dei sintomi per più di sei mesi;

  4. Schizofrenia, ritardo mentale e altre patologie psichiatrie sono state escluse;

  5. Tra i soggetti con ritiro o perdita di interesse per la scuola o il lavoro, chi mantiene relazioni personali è stato escluso.

Per quanto riguarda l’ultimo punto, non vengono però considerate le relazioni online, che invece si riscontrano nelle persone ritirate.


Ma quanti sono gli hikikomori?


Nel 2019, il governo giapponese ha condotto un sondaggio nazionale, da cui è emerso che in Giappone ci siano 541.000 persone di età tra 15-39 anni e 613.000 persone di età tra 40-64 anni che sono hikikomori, dove il 60% sono maschi (Iwakabe, 2021). Questi numeri indicano che l’1,2% della popolazione giapponese vive in una condizione di ritiro sociale. Nel 2022, si parla 1.5 milioni di hikikomori (https://www.hikikomoriitalia.it/2023/04/studi-hikikomori-giappone-italia.html). In Italia si presuppone una stima di almeno centomila casi (https://www.hikikomoriitalia.it/p/chi-sono-gli-hikikomori.html).


Il CNR ha rilevato circa 50.000 hikikomori nella fascia di popolazione tra i 15 e i 19 anni, mentre l'Istituto Superiore di Sanità ne ha identificati circa 65.000 tra gli 11 e i 17 anni in un articolo presentato nel corso di una conferenza svoltasi nel marzo 2023   (https://www.hikikomoriitalia.it/2023/04/studi-hikikomori-giappone-italia.html).

Questi numeri, però, potrebbero rappresentare una sottostima della situazione reale, dal momento che non solo questi soggetti si ritirano dalla società, diventando invisibili, ma anche i genitori tendono a nascondere che i figli vivono in una condizione di ritiro sociale per via della vergogna che provano.

Come abbiamo già detto, gli hikikomori sono persone che trascorrono la maggior parte del tempo dentro la propria casa, spesso nella propria stanza.

Dormono, giocano ai videogames, navigano su internet, leggono fumetti o manga, cercando in questi passatempi una via di fuga dal mondo reale. Perdono contatti con gli amici e anche con gli stessi familiari. Inoltre, invertono la notte con il giorno, stando svegli tutta la notte quando la società dorme e andando a dormire quando il giorno comincia (Kaneko, 2006). Dormire mentre gli altri vivono, potrebbe essere un modo per non sentire la società andare avanti senza di loro, oltre che per evitare di provare vergogna o senso di colpa per non essere riusciti ad andare a scuola o a lavoro. Infatti, mentre all’inizio gli hikikomori possono sentirsi addirittura felici di stare rinchiusi dentro la propria stanza, provando un senso di sollievo nell’evadere dalla propria realtà (Kato, 2019), non possono tuttavia dimenticarsi che sono in uno stato di evitamento. Con il passare dei mesi o degli anni, possono provare solitudine, noia, frustrazione, alienazione e vergogna. Sentono il fallimento e l’inadeguatezza di non riuscire a vivere una vita normale (Iwakabe, 2021). E la cosa peggiore è che non sanno come ricominciare a farlo. Quello che può apparire come una scelta volontaria, diventa uno stato da cui non riescono più ad uscire.

Questa sorta di volontarietà, di finto controllo sul proprio ritiro è un aspetto che si può riscontrare negli hikikomori, quando entrano in uno stato ipomaniacale o maniacale, in cui credono di riuscire a fare tutto. Questo può portare ad un duro scontro con la realtà dei fatti. Infatti, può capitare che la sera si ripromettano di riprendere uno stile di vita normale, mentre la mattina non sono in grado di uscire dal letto e, se forzati a farlo, possono sperimentare sintomi come cefalea, panico, nausea, il disagio diventa intollerabile. Quando rientrano a casa i sintomi vanno via. Si illudono che il giorno dopo le cose andranno diversamente e che saranno in grado di uscire, ma non è così e questo accadrà finché non accetteranno la situazione, decidendo di rimanere nella propria stanza (Piotti, 2020).



Associazioni con serie tv, videogme, manga e anime


A tal proposito c’è una scena in “Good Night World” – un anime disponibile su Netflix dove il protagonista ricorda un hikikomori – in cui il fratello del protagonista, dopo aver cucinato per quest’ultimo che non mangiava da tre giorni, tre giorni che aveva passato chiuso in stanza a giocare ad un videogame, gli dice: “dovresti uscire, anche se non puoi lavorare, dovesti abituarti a uscire, anche solo per una passeggiata. Potresti accompagnarmi al supermercato”. A queste parole, il protagonista reagisce con panico e conati di vomito, tanto che il fratello, rassegnato, dice: “Immagino che tu non possa davvero”.

L’hikikomori, dunque, non riesce più a tornare alla normalità e più si isolano e più perdono il contatto con la realtà. “C’erano alcuni amici che cercavano di contattarmi. Più non gli rispondevo, più perdevo il contatto con il mondo esterno”, dice ancora Suzuki (Kaneko, 2006).

Questa frase mi fa venire in mente un videogioco, chiamato “Omori”, in cui viene raccontata la storia di un giovane hikikomori chiamato Sunny e del suo alter ego, Omori appunto, che vive nel mondo dei sogni. Il giocatore esplora il mondo reale e surreale del ragazzo con l’obiettivo di superare le sue paure. “Omori” è un gioco interattivo, in cui le scelte del giocatore influiscono sulla trama portando a scenari diversi e, in ultimo, a finali multipli. All’inizio del gioco troviamo Sunny nella sua camera, qualcuno bussa alla porta: è il suo amico Kel. Da quel momento la storia diverge a seconda che Sunny decida di aprire o meno la porta. Se la apre, i due amici, dopo quattro anni di solitudine che Sunny ha passato chiuso in casa, riusciranno a trascorrere dei momenti insieme, recuperando il tempo perso. Il gioco si alterna così tra mondo reale e mondo dei sogni. L’altro fa da ponte verso la realtà. Se Sunny, invece, decide di non aprire, il gioco si svolgerà quasi esclusivamente nel mondo dei sogni. “Più non gli rispondevo, più perdevo il contatto con il mondo esterno”. Senza l’altro, la realtà si perde.

La persona stessa si perde, diventa un fantasma. I genitori non possono vederlo, ma possono sentirne i movimenti dietro la porta della sua stanza. La stanza. Ritorniamo per un attimo al disegno di G., raccontato all’inizio di questo elaborato. G. disegna tutte e quattro le stagioni che contemporaneamente vede dalla e nella sua casa, come se tutto il mondo dovesse essere costretto tra quelle quattro mura. Si perde il senso del tempo e dello spazio, quest’ultimo diventa più stretto o più largo a seconda che la stanza diventi una prigione o un luogo di evasione (Aguglia, 2010). In entrambe le situazioni, però, la stanza ingloba tutto, fagocitando l’individuo.

Questa immagine evoca in me il ricordo di un monologo di “The Haunting of Hill House”, una serie televisiva Netflix che ruota attorno ai misteri e ai fantasmi di Hill House, la residenza estiva dove la famiglia Crain ha passato un’estate, di cui quindici anni dopo devono ancora renderne conto. Uno di questi misteri è cosa ci sia dietro una porta rossa della casa, che nessuno riesce ad aprire. Tra il significato della Stanza Rossa e quello della stanza di un ragazzo hikikomori ci trovo un parallelismo, basti pensare alla stessa porta che non si apre. Nell nella puntata finale dice: “Mamma dice che la casa è come un corpo umano e che ogni casa ha degli occhi, delle ossa, una pelle e una faccia. Questa stanza è come il cuore della casa. No, non il cuore, ma lo stomaco. Era la tua sala da ballo, Theo. Era la mia stanza dei giocattoli. Una sala di lettura per la mamma. Una stanza dei giochi per Steve. Un soggiorno per Shirley. Una casa sull’albero. Ma era sempre la Stanza Rossa. Indossava diverse maschere per tenerci fermi e calmi, mentre ci digeriva. Io sono come una piccola creatura inghiottita da un mostro”.

Prima di correggersi, Nell dice che la stanza è come il cuore della casa e anche per un hikikomori può apparire all’inizio così: il cuore che batte tiene in vita la persona e la stanza tiene in vita il ragazzo. Questa vita, però, è solo apparente, la stanza non è il cuore, ma lo stomaco e sta, di fatto, fagocitando l’individuo. Il tempo, infatti, come abbiamo già detto, scorre diversamente dal mondo esterno e lo stesso ad Hill House, dove passato, presente e futuro si mescolano, diventando la stessa cosa. “Ho sempre pensato che il tempo fosse una linea, che i nostri giorni fossero come tessere di un domino, che cadono l’una sull’altra e così via […] Ma mi sbagliavo, non è affatto così. I nostri giorni ci piovono addosso come pioggia”, ecco che allora è possibile avere inverno ed estate insieme. Non solo il tempo, ma anche la percezione dello spazio cambia. Come la Stanza Rossa cambia aspetto, per diventare un luogo rassicurante per i Crain, così accade per la stanza dell’hikikomori. Internet ed i videogame possono portare l’individuo in un altro posto, che è più rassicurante, avvincente perfino, rispetto alla realtà. A tal proposito, molto interessante è il genere manga isekai, in cui il protagonista del manga, spesso un ragazzo hikikomori, viene trasportato, evocato, reincarnato o intrappolato in un universo parallelo. Questo offre uno spunto di riflessione sulla vita parallela che gli hikikomori vivono nelle loro stanze. Infatti, per quanto rifiutino il contatto con il mondo esterno – da notare la parola “con-tatto”, composta dal termine tatto, che può far presupporre un’interazione fisica con l’altra persona – intessono relazioni virtuali con gli altri, imparano perfino a parlare fluentemente l’inglese, dal momento che giocano di notte, quindi con giocatori internazionali. Oltre ai mondi paralleli in cui si rifugiano giocando ai videogames o navigando su internet, i manga isekai possono svelare il desiderio di condurre un’altra vita. Nell’adattamento anime di uno di questi manga (“Re: Zero, Starting Life in Another World”), il protagonista ritrovatosi nel nuovo mondo, dopo aver subito diverse disavventure, dice una frase importante: “dov’è il mio ruolo da protagonista?”, si chiede, manifestando il desiderio di avere le redini della propria vita in mano, cosa che da hikikomori non ha. Un aspetto interessante dei manga isekai è che spesso il protagonista si ritrova in un mondo che ha le regole di un videogioco e questo non è un caso, dal momento che è l’unica realtà che conoscono o almeno quella più vicina a loro.

L’uso di videogames e di internet da parte degli hikikomori apre un dibattito sul rapporto che c’è tra l’uso di questi e lo sviluppo di tale condizione. I mass media tendono a stabilire un nesso di causa-effetto e questo lo si può ritrovare anche nel pensiero comune.


L'utilizzo di internet


Interessante è stato il commento che ho letto sotto ad un articolo di giornale pubblicato su Instagram, che trattava dell’incidenza dei casi hikikomori nelle scuole del Piemonte (https://www.greenme.it/lifestyle/costume-e-societa/in-piemonte-e-allarme-hikikomori-una-scuola-su-tre-ha-almeno-un-allievo-che-si-auto-isola/). Il commento recita “Sconnettendogli internet e riempiendo il frigo di cibi sani non avranno più motivi per chiudersi in casa. Nn è difficile da curare”, manifestando una visione semplicistica della questione e un’idea di un rapporto causa-effetto tra il ritiro e l’uso di internet, quando questo non è chiaro se ci sia. Infatti, sebbene sia stata trovata una correlazione tra hikikomori e dipendenza da internet (Neoh et al., 2023) e un rischio di sviluppare un Internet Gaming Disorder (IGD) per chi mostra sintomi di ritiro, (Stavropoulos et al., 2019), Aguglia (2010) sostiene invece che sì gli hikikomori usano internet, ma non sviluppano alcun tipo di dipendenza. Inoltre, per quanto gli hikikomori possano essere una popolazione a rischio per l’IGD, un aspetto da considerare è che potrebbe essere difficile distinguere all’interno di questa popolazione che usa per molto tempo il pc quelli dipendenti dagli individui che si appoggiano ad internet come unica finestra di interazione con l’esterno, senza esserne dipendenti. Internet può essere usato in maniera adattiva, come connessione con il resto del mondo. L’uso di internet per gli hikikomori diventerebbe parte della propria identità in un’ottica egosintonica, mentre nel caso della dipendenza da internet, questo comportamento verrebbe vissuto come egodistonico e, perciò, porterebbe a sofferenza (Cerniglia et al., 2017). A livello clinico, quando il navigare assume forme interattive e sociali (come nei giochi di squadra o nei social network) può diventare un fattore protettivo. Il termine ritirato sociale si addice solo in parte agli hikikomori: ne descrive gli aspetti esteriori, ma in realtà̀ gli hikikomori non sempre si ritirano dai contatti sociali, li virtualizzano. In rete incontrano altri giocatori e si relazionano con i loro avatar, combattono, stringono alleanze, stabiliscono legami affettivi, recuperano le relazioni che non riescono ad avere nella realtà. Se si potesse osservare un hikikomori mentre è preso da uno dei suoi giochi online, non si vedrebbe una persona infelice, ma una persona attiva che parla vivacemente con gli altri giocatori di tutto il mondo, lo si vedrebbe scherzare, innervosire, perfino alzare la voce (Piotti, 2020). La vivacità dei rapporti virtuali rispetto alla solitudine del mondo reale è rappresentata bene da una scena di “Good Night World”, già citato precedentemente in questo elaborato. Assistiamo infatti ad una bellissima cena in PLANET – il videogioco in cui si immerge il protagonista – in cui i giocatori chiacchierano, ridono e scherzano come una famiglia e dal rumore felice si passa al silenzio assoluto della camera del ragazzo quando smette di giocare. Finito il gioco ritorna ad essere solo.

Online è tutto più facile. Il corpo virtuale che gli hikikomori indossano, infatti, è un corpo vincente, per cui l’incontro con gli altri non resta più un problema. Nei giochi online multigiocatore spesso i giocatori si identificano con il proprio avatar e questo porta, oltre ad una fuga dal mondo reale, ad una compensazione per gli aspetti negativi percepiti nella realtà, come ad esempio accade per gli individui in sovrappeso che creano un avatar in forma (Stavropoulos et al., 2019).


Il corpo e il senso di vergogna


Il corpo virtuale assume un’importanza maggiore del corpo reale, che svanisce. “Io sono come una piccola creatura inghiottita da un mostro” – ricordiamo che nel nostro parallelismo il mostro è la casa, la stanza – il corpo reale dunque si rimpicciolisce, perde importanza. Prima di perdere importanza, però, il corpo è sentito come oggetto di vergogna. La vergogna è un sentimento che si lega allo sguardo altrui, a cui gli hikikomori si sottraggono perché sentono che nelle relazioni con gli altri non c’è spazio per l’esitazione e la goffaggine che provano (Piotti, 2020). Non c’è spazio per ciò che non rispetta i canoni della bellezza dettati dai nuovi social. Ecco, allora, che si arriva al rifiuto della dimensione fisica del corpo, in cui si evita lo sguardo altrui per nascondere quella parte di sé che è sentita come troppo fragile (Piotti, 2020). Con i videogiochi il rifiuto della dimensione fisica del corpo è facilmente ottenibile. Infatti, come è stato già detto, gli hikikomori si possono identificare con l’avatar che utilizzano e abbandonare così il proprio corpo percepito come poco attraente e indossarne uno bello, forte e vincente (Piotti, 2020). Il rifiuto del proprio corpo può portare anche a desiderare di averne un altro. Un manga interessante a tal proposito è “Inside Mari”, che parla di Isao Komori, un ragazzo hikikomori, che si invaghisce di Mari, una ragazza che vede quando di notte esce per fare la spesa al konbini. Una mattina Isao si sveglia e scopre di essere nel corpo di Mari. Prima della trasformazione, la ragazza viene vista da Isao come un angelo. Isao sente che la sua vita è dolorosa, diventare allora bella e pura diventerebbe un modo per alleviare quel dolore. La trasformazione non è data in un’ottica trans, non è quindi motivata dal sentimento interno “io sono una donna”, ma dal desiderio di fuggire a quel dolore e di diventare qualcosa che la stessa persona hikikomori reputa bella. Tutti i problemi sembrano sparire in lei, quindi voglio diventare lei.







I fattori di rischio


L’ansia sociale che l’hikikomori allevia con il ritiro è prodotta, quindi, in parte dalla vergogna, che può essere una delle cause che spinge una persona a ritirarsi. Oltre alla vergogna e alla pressione della società che avvertono – di cui abbiamo parlato in merito all’hikikomori come forma di coping – ci sono altri fattori di rischio che sono stati individuati per lo sviluppo di hikikomori. Tra questi annotiamo:

  1. un padre assente: il padre, infatti, è solitamente assorbito dal lavoro. Questo unito ad un rapporto molto stretto con la madre potrebbe portare ad una maggiore difficoltà nel diventare adulti indipendenti (Amor et al., 2020);

  2. la classe sociale: è stato visto che il fenomeno degli hikikomori si riscontra in famiglie di ceto medio-alto, questo è dovuto anche al fatto che sono le famiglie a dover mantenere il figlio (Aguglia, 2020)

  3. il sesso: in Giappone la prevalenza degli uomini hikikomori è di quattro volte superiore rispetto alle donne (Maglia, 2020);

  4. l’età: l’esordio avviene tra I 19 e i 27 anni, nel 23% dei casi già al primo anno delle scuole medie (Aguglia, 2020). Non è comunque da sottovalutare la presenza di hikikomori in età adulta e il problema che si pone per gli hikikomori di cinquant’anni con genitori intorno agli ottanta che iniziano ad avere difficoltà nel mantenere loro stessi e il figlio (Neoh et al., 2023);

  5. in prevalenza sono figli unici;

  6. essere primogeniti: se non sono figli unici, di solito sono primogeniti. In Giappone è il primogenito che deve mantenere il buon nome della famiglia con i suoi successi e questo può aumentare la pressione sociale;

  7. il bullismo: spesso gli hikikomori sono vittima di bullismo, ad esempio a scuola, per questo cominciano a non volerci più andare (Maglia, 2020)

  8. Rapporto madre-figlio simbiotico: in Giappone si usa il termine amae.


Alcuni aspetti della cultura giapponese – dove è nato questo fenomeno – che si è visto contribuire allo sviluppo di hikikomori si ritrovano anche in quella italiana: famiglie iperprotettive, forte investimento narcisistico sul figlio, che diventa protagonista di un riscatto familiare, relazione stretta tra madre e bambino e incertezza data dalle condizioni economiche e sociali (Ferrante & D'Elia, 2022). Piotti individua tre fattori comuni tra l’hikikomori italiano e quello giapponese: la fobia scolare, simili dinamiche tra madre e figlio e hobby come videogames e fumetti. Aspetti, allora, che erano ritenuti tipici della cultura giapponese, si ritrovano anche in altre culture, come quella italiana. Un esempio può essere anche l’amae. Amae è il sostantivo del verbo transitivo ameru che significa “dipendere da e presumere benevolenza dell’altro” (Forsberg, 2012), infatti si riferisce allo stretto legame di dipendenza che si instaura tra il figlio e la madre tanto che il figlio può agire in modo anche egoistico sapendo che dall’altro lato verrà sempre perdonato, qualsiasi cosa egli faccia (Kato et al., 2012). Questo stile genitoriale affettuoso, indulgente e protettivo favorisce la dipendenza dei bambini dai genitori, che continua ad essere accettata anche nell’età adulta, portando così all’accettazione da parte dei genitori del fatto che i figli rimangono a casa per lunghi periodi di tempo (Neoh et al., 2023).


Come abbiamo visto all’inizio di questo elaborato, la parola komoru, che compone il termine hikikomori, si pronuncia allo stesso modo di komori, ma la prima significa “ritirarsi”, la seconda “fare da babysitter”. La lingua, in questo caso, fa riflettere sul legame che c’è tra la madre e il figlio hikikomori, che sebbene rifiuti il con-tatto con l’altro, ne ha comunque bisogno per restare in vita, si veda ad esempio che molti mangiano il cibo lasciato fuori dalla porta della propria stanza.

L’educazione è, quindi, permissiva e la madre piuttosto che rimproverare o punire mostra dispiacere e vergogna (Aguglia, 2020). Ritorna così la vergogna, tanto provata dagli hikikomori. Questo comportamento iperprotettivo da parte della madre può portare, come abbiamo già detto, a lasciare il cibo fuori dalla porta del figlio hikikomori, sebbene questo favorisca e rafforzi il suo ritiro. Può, inoltre, essere un motivo dei casi di violenza che si riscontrano nelle case degli hikikomori: il ragazzo entra in uno stato di regressione, dove c’è la tendenza a ritornare bambini e a mettere in atto dei comportamenti infantili, c’è quindi il desiderio infantile di possesso, che si lega alla violenza domestica (Ricci, 2006).

Sebbene all’inizio fosse stato considerato come tipico e unico della cultura giapponese, ora si ipotizza che sia più universale (Kato et al., 2012). A tal proposito, mi viene in mente un fatto curioso che riguarda il dipinto del pittore Gustav Klimt, “Le tre età della donna”. Se si cerca questo dipinto su internet, ci si imbatte spesso non nel quadro, ma in suo dettaglio: quello della madre con la bambina.




Anche su aziende di commercio elettronico quali e-bay, amazon o etsy, i primi risultati al digitare il titolo dell’opera mettono in mostra mercanzie quali quadri, stampe di tela o poster raffiguranti esclusivamente il dipinto tagliato. In alcuni casi non si fa neanche riferimento al titolo originale del quadro, che viene ad esempio sostituito con “Klimt, Maternità”. Riscontro perciò una volontà generale ad escludere se non dimenticare la donna anziana e derelitta così da preservare la grazia e la beatitudine angelica che avvolgono l’abbraccio tra il bambino e la giovane madre. È come se Klimt avesse creato due opere distinte e instillando nel pubblico (o almeno in una sua fetta) un processo collettivo di rimozione. Permane, quindi, nell’immaginario comune questo legame tra madre e bambino che ricorda una relazione di prolungata simbiosi soffice, beata, silenziosa e gioiosa. La madre tende a mostrare un’intensa devozione, ammirazione e sentimento di amore. La posizione della testa inclinata della madre che contorna il bambino nel dipinto di Klimt può rendere in parte questa idea. L’immagine del bambino che si crea è quella di una fragile creaturina che ha bisogno di un continuo affetto e protezione che solo la madre può donare. Dunque, quello che rimane nell’immaginario comune è l’amae. Anche al di fuori dal Giappone possiamo quindi dire di conoscerlo.


Trattamenti possibili


Ma come si trattano i casi di hikikomori? È difficile che chi è hikikomori cerchi aiuto da solo, per questo è importante l’intervento della famiglia nella richiesta di supporto (Kato et al., 2019). Come per altri disturbi psichiatrici, il trattamento prevede spesso una combinazione di psicoterapia e psicofarmaci (Teo, 2010). Il Ministero della Salute, del Lavoro e del Welfare del Giappone ha fornito delle linee guida per il trattamento degli hikikomori. Queste raccomandano di combinare la psicoterapia individuale, per trattare i disturbi psicologici individuali, con il sostegno familiare, per identificare gli ambienti familiari potenzialmente stressanti, e con la formazione professionale, per aiutarli ad apprendere competenze sociali e lavorative adeguate (Iwakabe, 2021).

Le indicazioni presenti in letteratura prevedono: il setting classico di psicoterapia a studio o la terapia online. Quest’ultima, però, può andare incontro ad un problema: quello della vergogna. Gli hikikomori possono sentire invasiva la webcam nella loro stanza e provare forte imbarazzo a farsi riprendere e questo potrebbe portarli a interrompere la terapia. Altre indicazioni sono: il sostegno genitoriale, interventi su tutta la famiglia e l’intervento educativo sul ragazzo.

Ma può risultare complicato mettere in atto questi trattamenti, se l’hikikomori rimane chiuso nella sua stanza senza comunicare nemmeno con la famiglia. Il primo passo da fare, allora, è cercare di far uscire gli hikikomori dalla loro stanza con delle visite a casa. In Giappone chi si occupa di questa fase delicata viene chiamato “sorella in affitto”. Solitamente le sorelle in affitto sono donne tra i venti e i trent’anni che fanno visita alla persona e che cercano di stabilire una comunicazione, un contatto con essa, anche se questo significa stare seduti fuori dalla loro porta e aspettare (Correy, 2012). Possono passare mesi prima che decidano di aprirla e altrettanti mesi possono trascorrere prima che riescano ad uscire di casa. Il lavoro delle sorelle in affitto è quello di reintrodurli al mondo esterno e alle relazioni.



Il Compagno Adulto per i ragazzi in ritiro sociale


In Italia non ci sono le sorelle in affitto, ma una figura simile, seppur diversa, è quella del Compagno Adulto (https://www.fioridacciaio.net/compagno-adulto , https://www.fioridacciaio.net/compagno-adulto-hikikomori ). Il Compagno Adulto è un giovane psicologo o psicoterapeuta preparato per lavorare con gli adolescenti. Il lavoro non si svolge in uno studio, ma a casa dei ragazzi. Il Compagno Adulto è un modo specifico di condurre gli interventi domiciliari integrati e personalizzati in cui si usano le attività della vita quotidiana in un’ottica terapeutica. Risulta un ottimo intervento terapeutico per le persone che non riescono ad accedere ad un percorso in studio. Il setting domiciliare permette, quindi, di raggiungere gli hikikomori nel loro ambiente domestico, sebbene l’intervento dell’Operatore, come nel caso delle sorelle in affitto, può richiedere molto tempo passato in attesa davanti alla porta chiusa. Un aspetto importante della relazione terapeutica che si va ad instaurare tra ragazzo e Operatore è che è proprio attraverso la relazione con il Compagno Adulto che i ragazzi rimparano a socializzare. Infatti, oltre agli interventi domiciliari, che col tempo si spostano sempre più fuori casa, in fasi più avanzate ci possono essere anche le uscite di gruppo e la partecipazione ai laboratori organizzati dall’associazione di riferimento del Compagno Adulto, tutti ambienti dove la persona può socializzare con persone della sua età e, talvolta, con vissuti simili ai suoi. Far parte di un gruppo aumenta la fiducia in se stessi, la partecipazione ad attività sociali e una reintegrazione nella società (Teo, 2010).

Mi piacerebbe finire come ho iniziato: dal disegno di G. Infatti, c’è un particolare che richiama proprio questo tema dell’attesa e della porta chiusa. G. disegna il tappetino con la scritta “welcome” dentro la stanza, quando solitamente è fuori la porta d’ingresso, come a dire “benvenuto è solo chi scelgo io di far entrare”. Da lì le attese fuori la porta. Ma c’è un dettaglio ancora più importante, ovvero che il tappetino c’è, è disegnato e questo svela un desiderio di accogliere l’altro, per quanto lo si rifugga.

Il dolore, la vergogna, le difficoltà sono troppo grandi, per cui scelgono di fuggire, isolarsi. Scelgono di star soli. Ma non lo vogliono essere.



Un estratto dell'elaborato di fine corso della Dott.ssa Francesca March

Operatore d'Acciaio edizione Corso settembre-dicembre 2023.


Bibliografia


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