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“Fino all’osso” – Legami, corpo e invisibilità del dolore

  • Fiori d'Acciaio
  • 20 mag
  • Tempo di lettura: 6 min
Locandina del film "Fino all'Osso"
Locandina del film "Fino all'Osso"

Trama-in chiave psicologica

“Fino all’osso” (To the Bone, 2017), diretto da Marti Noxon, è un film che affronta con coraggio e delicatezza il tema complesso dei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA). Lo fa evitando la spettacolarizzazione del dolore, scegliendo invece uno sguardo intimo, sobrio e penetrante: uno sguardo capace di attraversare con apparente leggerezza alcune scene per poi rivelarne, con profondità crescente, la densità emotiva e simbolica.

Protagonista della narrazione è Ellen, una ragazza di vent’anni che si muove in un labirinto di sintomi, cliniche, diagnosi e fallimenti terapeutici. Il suo corpo, svuotato e controllato, diventa il teatro di un conflitto silenzioso ma bruciante: il desiderio di sparire si intreccia con la paura di esistere, e la malattia si configura come un tentativo estremo di comunicare ciò che ancora non ha trovato parola.

La sua sofferenza, tuttavia, non è solo personale: si inserisce all’interno di un contesto sociale in cui il dolore di Ellen resta invisibile, se non nel linguaggio estremo del corpo.

La narrazione evidenzia come, in particolare l’anoressia, sia la manifestazione di un disagio profondo, inscritto nel corpo e nella relazione, piuttosto che nella sola dimensione sintomatica e comportamentale. Rappresenta, quindi, una crisi più ampia: quella dell’identità, del legame, del significato. Il film rappresenta una lente utile per riflettere – in chiave psicodinamica – sulla funzione del corpo in adolescenza, sul fallimento del contenimento primario e sulla funzione del sintomo come tentativo (fallimentare, ma significativo) di soggettivazione.

Il film accompagna piuttosto lo spettatore lungo un percorso di presa di coscienza, in cui la malattia non è solo un nemico da combattere, ma un linguaggio, un appiglio, una forma di resistenza alla dissoluzione. Affidandosi a un terapeuta fuori dagli schemi, Ellen avvia un movimento lento e impercettibile: quello che, dalla sopravvivenza, porta alla possibilità di una scelta. Una scelta fragile, incompleta, ma profondamente reale.

Fino all’osso ci invita a riflettere sul corpo come spazio simbolico, in cui si inscrivono angosce, desideri e relazioni interrotte. Ci interroga sul significato profondo del nutrimento – non solo biologico, ma affettivo – e sulla sottile linea che separa il bisogno di controllo dal desiderio di sparizione, l’autonomia dall’isolamento. Ellen diventa così il volto di un’adolescenza smarrita, alla ricerca di sé in un mondo che propone infiniti modelli ma pochi contenitori emotivi capaci di accoglierla davvero.


Adolescenza e Disturbi Alimentari: la crisi della soggettivazione


L’adolescenza è una soglia. Un tempo sospeso tra l’infanzia e l’età adulta, in cui il corpo si trasforma e obbliga il soggetto a ridefinire la propria identità. È un passaggio carico di possibilità ma anche di rotture, e può diventare terreno fertile per il sintomo quando il contesto relazionale e simbolico non offre contenimento né ascolto.

Il film si colloca all’interno di un più ampio contesto culturale e sociale che possiamo definire post-narcisistico: una fase storica in cui vi sono standard irraggiungibili di bellezza e successo, ma in cui manca il radicamento nella realtà; come sottolineano diversi autori contemporanei, la crisi non è più soltanto dell’immagine, ma del significato: i giovani, immersi in un universo iperconnesso e instabile, faticano a costruire una narrazione di sé coerente. Non è più il “non sono abbastanza”, ma il più disorientante e angosciante “non so chi sono, né cosa significhi essere me”.

Nel caso di Ellen, infatti, vediamo chiaramente come il corpo che cambia diventi insopportabile. I segni della femminilità vengono negati, ridotti, cancellati. Ogni forma, ogni curva viene annullata in un tentativo disperato di bloccare il tempo, arrestare il divenire, fermare la trasformazione, la crescita. La negazione delle forme corporee femminili è anche un modo per eludere la sessualità, l’alterità, il desiderio.

Il sintomo anoressico assume quindi una doppia funzione: da un lato protegge Ellen da un mondo interno caotico; dall’altro, le consente di esistere, di dare contorno alla propria identità, anche se in forma dolorosa. Il film lo mostra con grande sensibilità: Ellen non sembra voler guarire, ma non vuole nemmeno morire. È in quella “terra di mezzo” tipicamente adolescenziale, in cui l’unica forma di controllo possibile è sul corpo, ecco che il sintomo diventa l’unico appiglio contro l’angoscia della disintegrazione.

Il sintomo anoressico può, dunque, arrivare a configurarsi come una modalità di esistenza: non solo difesa dall’angoscia, ma anche espressione di identità. “Io sono quella che non ha bisogno, che non sente, che controlla”: una definizione identitaria costruita per opposizione, ma paradossalmente coerente.

Disegno eseguito da Gioia|13 anni
Disegno eseguito da Gioia|13 anni

Il sintomo anoressico come difesa: rifiutare per non essere invasi


Nel caso di Ellen, il rifiuto del cibo non è semplicemente un problema alimentare. È un gesto simbolico profondo, carico di significati psichici che affondano nella relazione con l’Altro. L’anoressia diventa una modalità estrema di autodifesa: un modo per affermare un limite invalicabile tra sé e gli altri, per evitare la fusione, l’invasione, la perdita del controllo.

Nel film, la gestualità ossessiva di Ellen riflette il vissuto emotivo e fisico di adolescenti con DCA, ossia, come il corpo diventa un “oggetto di manipolazione identitaria”, uno strumento attraverso cui il soggetto tenta di recuperare un senso di padronanza su di sé: conta le calorie con precisione maniacale, sminuzza il cibo, misura il proprio braccio con le dita per assicurarsi che rimanga sottile.

La chiusura verso il mondo è totale, così come la chiusura radicale verso se stessa.


Uno dei momenti più intensi e simbolicamente carichi di Fino all’osso è l’incontro tra Ellen e la madre biologica, in un capanno isolato, lontano dalla clinica e da ogni altro personaggio. Qui il film compie un gesto tanto ardito quanto denso di significato: la madre propone alla figlia, ormai adulta e profondamente sofferente, di nutrirsi con un biberon, cingendola tra le braccia come un neonato.

Questa scena acquisisce un significato simbolico molto denso in quanto rappresenta, esplicitamente, l'atto del nutrimento materno e, implicitamente, l'importanza della relazione.

Quando il nutrimento – fisico ed emotivo – è stato in passato vissuto come inadeguato, intrusivo o instabile, il ricevere stesso diventa un atto pericoloso. L’altro, invece di offrire protezione, è percepito come una minaccia all’integrità del Sé. Ricevere significa allora perdere il controllo, essere invasi, dissolti. Ogni gesto d’amore rischia di essere vissuto come un’invasione. Lo vediamo nella scena toccante dell’incontro con la madre biologica: Ellen accetta di lasciarsi “nutrire” simbolicamente con un biberon solo dopo che la madre dichiara di accettare l’idea di poterla anche perdere. È solo in quel momento che Ellen si concede di ricevere, non per bisogno, ma per salvare l’altro dalla colpa e dal dolore.

A questo punto, sembra naturale chiedersi che importanza abbia la figura paterna all'interno della cornice dei DCA e soprattutto che funzione svolga.

Nel film, il padre è una figura fantasma. La sua assenza non è solo fisica, ma simbolica: nessuno svolge la funzione di “terzo”, ovvero quella funzione paterna capace di separare, dare nome, tracciare confini tra il Sé e l’Altro. La sedia vuota lasciata nella stanza è una potente immagine di questa mancanza: senza un terzo simbolico, non è possibile differenziarsi, non è possibile diventare soggetto. 

Disegno eseguito da Gioia|13 anni
Disegno eseguito da Gioia|13 anni

La confusione di ruoli e l’invisibilità del soggetto

In questo clima di confusione e sovrapposizione, Ellen non è più vista come persona, ma come un problema da risolvere. Lei stessa lo afferma: “Non sono più una persona, sono solo un problema”. È una frase che racchiude l’alienazione identitaria e la frattura soggettiva che spesso accompagna i disturbi alimentari. Solo quando viene riconosciuta come soggetto pensabile, distinto e separato, può iniziare a pensare a se stessa come una "persona".

Questa scena, come l’intero film, mostra come i disturbi alimentari non nascano nel vuoto, ma si radichino in contesti familiari e sociali carichi di ambivalenza, dolore e incomunicabilità. Il corpo diventa l’unico modo per gridare un dolore che non ha potuto essere ascoltato. La terapia, in questo senso, non è un processo di correzione, ma di ascolto profondo: uno spazio in cui il soggetto può essere finalmente visto, contenuto, pensato.


Corpo, identità e relazioni – Il dolore che non si può dire

In Fino all’osso, il corpo di Ellen parla. Parla anche quando lei tace, anche quando le sue parole si riducono a sarcasmo o a un’apparente indifferenza. Il corpo magro, consumato, scarnificato diventa il suo linguaggio primario, il suo modo di esistere, di chiedere amore senza chiederlo, di farsi vedere senza esporsi. È il linguaggio incarnato di un dolore che non ha trovato parola, e che si manifesta nella pelle, nelle ossa, nella sottrazione. La clinica dei disturbi alimentari, in questo senso, è prima di tutto una clinica del legame: del suo fallimento, della sua assenza, ma anche della sua potenziale riparazione.

Ellen, nel finale del film, sceglie di tornare. Ma non al punto di partenza: torna a sé stessa, a un punto interno dove può cominciare a esistere come soggetto separato e pensabile. Ellen sceglie. Torna. Forse per l’ultima volta, o forse per la prima davvero. Perché curare significa restituire un nome al dolore e una voce al silenzio. E soprattutto, restituire, a se stessi, il diritto a esistere.


Autrice: Giorgia Acchioni


Bibliografia

Ammaniti, M., & Gallese, V. (2014). La nascita dell’intersoggettività: Lo sviluppo del sé tra psicodinamica e neurobiologia. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Carbone, P., & Cimino, S. (Eds.). (2015). Adolescenze. Itinerari psicoanalitici. Roma: Alpes Italia.

Charmet, G. (2005). La fatica di diventare grandi. Milano: FrancoAngeli.

Cimino, S. (2009). Psicodinamica dell’alimentazione nella prima infanzia. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore.

Colli, A. (2013). Teatri del corpo. Un approccio psicoanalitico ai disturbi psicosomatici. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Di Chiara, G. (1999). Sindromi psicosociali. La psicoanalisi e le patologie sociali. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Lancini, M. (2005). Adolescenza e psicopatologia. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Novelletto, A. (2000). Il corpo adolescente. Percorsi psicopatologici dell’identità. Roma: Borla.

Ripa di Meana, G. (2017). Figure della leggerezza: La sofferenza anoressico-bulimica fra corpo e parola. Roma: Alpes Italia.

 
 
 

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